29 marzo 2009

Underground

Ho accettato questo lavoro soprattutto perchè per andarci prendo la metropolitana.
Può sembrare stupida come motivazione ma, io ADORO prendere la metro, la nostra metro.
Oh niente a che vedere con gli splendori di Mosca o di San Pietroburgo, ottanta metri sottoterra e stazioni che sembrano saloni delle feste degli Zar, tanto belle da non poterle nemmeno fotografare. Ci ho provato eh! Ma un abnorme poliziotto mi si è parato davanti e ho dovuto mimare la solita italiana monoglotta per cavarmela senza la multa. Tutt'altra cosa anche il Metrò Parisien, sicuro, con le sue moltitudini umane che la invadono ogni giorno come affluenti nel fiume, e i ragazzini che invece di timbrare il biglietto saltano il tornello (si vede che a loro manca quel "p'tit brun," di cui invece noi siamo provvisti).
A Torino la metro è un mondo nuovo, quasi alieno. Una creatura dello spazio che, caduta per errore sulla città, è stata addomesticata e ora trasporta la gente in due uniche finite direzioni: Collegno - Porta Nuova.
C'è qualcosa di mistico in questo dualismo: dentro e fuori dalla città. Sali a Porta Nuova, sfuggendo al brulichio della gente, alla puzza di smog, e scendi a Fermi, in una periferia brutta ma piena di cielo.
Dal primo gradino di un ingresso qualunque la stazione ti inghiotte. Un secondo e non ricordi più chi sei e qual'è la tua meta. Ogni giorno la stessa routine, gli stessi passi, ma una musica diversa.
Mi immergo e mi chiedo se per caso prima o poi mi ritroverò per qualche misterioso fenomeno a scendere a Montmartre, a Camden Town o in un'altra galassia, chissà.
Buffo, ma tutti i "metropolitans" sembrano condividere la stessa speranza, quella di uscire fuori e trovare un mondo diverso, magari migliore.

Bonsai

In questa che è l'era del suono, e talvolta del frastuono, delle parole che non dicono, della comunicazione che poi non comunica niente, l'Aikido risponde con il silenzio.
bonsai1
...ikkyo, nikkyo, sankyo... parole che suonano incomprensibili e invece sono elementari: primo, secondo, terzo principio...
L'Aikido comunica con ciò che di più ancestrale c'è in noi: lo spirito. E lo fa con l'unico strumento che possediamo dalla nascita: il corpo.

La parola, il corpo, il contatto, hanno una valenza che non potrebbe essere concepita, accettata al di fuori del dojo. E' un luogo in cui si rispettano leggi ormai dimenticate. La fedeltà, il rispetto delle gerarchie, della forma, la totale fiducia nel proprio maestro, sono concetti ormai estranei alla nostra società, ed è forse proprio questo che spinge i praticanti a salire più volte la settimana sul tatami: il desiderio di governare la propria vita secondo le leggi della natura, che prevedono che "il giovane impari dall'anziano" (anche quando si tratta di un'anzianità di esperienza e non anagrafica), che cresca rispettando gli altri, e che migliori superando sé stesso e non "brillando di luce riflessa", perché è una cosa che solo la luna riesce a fare con grazia.

Il mondo esterno ci trasmette l'esigenza di emergere, apparire, anche a costo di soverchiare quelli che consideriamo avversari. Qualunque cosa pur di non rimanere nell'anonimato, di essere riconosciuti per strada. Forse anche questa esigenza nasce da un errore di comunicazione; spesso la gente si illude di essere meno sola, se riceve attenzione dagli altri. In realtà la solitudine è una condizione puramente spirituale e così come si può manifestare in un posto affollatissimo, quasi certamente non sfiora l'eremita, il quale anzi l'anela perché gli permette di contemplare l'universo.

Ma quanto è difficile comunicare qualcosa? Quante volte, credendo di "parlare con il cuore" a qualcuno, ci rendiamo conto di non essere affatto compresi, di sembrare addirittura ridicoli? E perché altre volte incontriamo una persona per la prima volta e dopo pochi minuti sembra di conoscerla da sempre? Viene da chiedersi se non ci sia qualche cosa che trascende la comunicazione verbale, se c'è un linguaggio che si parla ad un livello diverso, e che è compreso dall'altro solo se anch'egli lo conosce a sua volta, se può sentirlo. Per fare un paragone si potrebbe pensare agli ultrasuoni emessi da alcuni animali, che permettono loro di comunicare senza essere compresi dalle altre specie.

Suzuki sosteneva che: "La contraddizione che tanto sconcerta il modo di pensare ordinario deriva dal fatto che dobbiamo usare il linguaggio per comunicare la nostra esperienza interiore, la quale per sua stessa natura trascende il linguaggio."
... Cos'altro si potrebbe aggiungere? Avendo fede nell'assunto, niente. Perché qualunque approfondimento toccherebbe la sfera spirituale di ciascuno di noi, e a quel punto purtroppo le parole non basterebbero più. Immagino che sia per questo che l'amore vero, in tutte le sue forme, si nutra di profondi silenzi. Ad una madre che allatta il proprio figlio appena nato, che parole servono? Cosa c'è di più bello del comprendersi senza dire niente, invece di parlare per ore senza ascoltarsi mai?
Le lezioni di Aikido più belle che ricordo sono quelle fatte in assoluto silenzio... solo il frusciare delle hakame, il ritmo dei respiri, lo strofinio leggero dei piedi sul tatami. In quei momenti anche sbagliare perde significato, conta quasi di più cercare l'awase, l'armonia con il compagno che non concludere perfettamente una tecnica. E quante cose si riescono a trasmettere quando si sta zitti! Sembra un controsenso, e invece è proprio così.

Il silenzio è introspezione, è ricerca, è preghiera. Ed è forse proprio per questo che la società in cui viviamo produce tanto rumore: è un tentativo (peraltro abbastanza efficace direi!) di distoglierci da ciò che è davvero importante, di impedirci di pensare, di limitare la nostra crescita spirituale, di logorare le nostre resistenze nei confronti di un progresso che non è a misura d'uomo (è davvero difficile prendere un treno quando è in corsa, se potesse farlo ciascuno di noi credo che preferirebbe prenderlo alla stazione, magari dopo aver salutato gli amici e bevuto un caffè!). La filosofia, le religioni, sono spesso troppo silenziose per ergersi per farsi sentire, in mezzo a tanto frastuono. Uno deve proprio tendere l'orecchio per percepire qualcosa, per distinguerlo dalle milioni di voci che gridano. E se per caso decide di perseguire una strada un po' diversa deve diventare presto consapevole delle difficoltà cui andrà incontro. A dirla così sembra tutto nero, ma in verità c'è un aiuto molto importante se si vuole coglierlo, ed è la consolazione che non siamo soli a cercare di percorrere una strada diversa, e ciò che è singolare è che ci si riconosce subito, su questa strada... sono gli "ultrasuoni" che ce lo permettono!
E così, ogni volta che una comunità si forma nel tentativo di crescere e comunicarsi mutuamente qualcosa, sia che essa pratichi su un tatami, che canti in un coro e o che vada in giro per il mondo vestito di arancione, scalzo e con la testa rasata, o con un saio, un paio di sandali e un buffo taglio di capelli, la vera comunicazione è preservata.

19 marzo 2009

Donne con la gonna


Mi piace il caldo, il sole sulla pelle, anche quando brucia, mi piace il vento di maestrale che rinfresca. Ma questa sera è diverso. Esco che è buio già da un pezzo, la maggior parte delle luci delle case è già accesa, quella degli uffici è già spenta. Ci sono poche macchine in giro, vagano lente come se non sapessero bene dove portare il loro passeggero, oppure spedite e scattose, guidate da qualcuno che non vede l'ora di arrivare da qualche parte.

Io sono a piedi, e poichè ho mancato il mio appuntamento con il tatami non ho nessuna fretta di arrivare, anzi.

Dentro di me comincio a considerare l'ipotesi di andare, camminare, fino a casa. Certo, non sono esattamente due passi, ma potrei comunque immaginare che sia una forma di "allenamento mentale". Non so perchè penso queste cose, ma mentre l'altra mia vocina (che in realtà non è nemmeno mia ma appartiene a mia nonna-mamma-amica-ecc.) mi dice atterrita che "
a quest'ora di sera non è una bella cosa per una ragazza andare in giro da sola", continuo a mettere un passo dietro l'altro, e non mi assale nessun senso di angoscia, vulnerabilità, smarrimento.
Diciamoci la verità, nuda e cruda, a noi donne insegnano ad avere paura fin da quando nasciamo. Lo fanno tutti, chi a fin di bene, chi per il proprio tornaconto, ma lo fanno tutti. Tutti i personaggi che fanno paura da piccoli sono maschili: l'orco, l'uomo nero (tralasciando inoltre le questioni razziali!!), la quasi totalità dei
serial killer idem. La nostra società è ancora prettamente maschilista, vuole che la donna tema l'uomo ma al contempo vuole che ci costruisca una famiglia. C'è qualcosa di profondamente distorto in questo, secondo me.
Purtroppo è un fatto che le donne subiscono nel mondo molte più vessazioni rispetto agli uomini, ma quanta di questa violenza è generata da un'irresponsabilità vera (se mai possa considerarsi una colpa) della vittima e quanta dalla ormai millenaria convinzione che le donne debbano in qualche modo sentirsi sottomesse? Che sia comunque quello il loro ruolo?
Vogliamo ancora accettare che se un marito violenta la propria moglie "il fatto non costituisce reato"?

Il quesito successivo è chiedersi cosa può fare una donna, per non avere paura.
Non credo che siano le mie armi tenute su una spalla a farmi sentire sicura di me. Dubito che avrei la freddezza necessaria per usarle come si deve. Non nascondiamoci dietro ad un dito, l'aikido non lo pratichi per andare a pestarti per le strade, o per difenderti da un tentativo di stupro. Se cerchi quello fai altro. L'aikido ti serve piuttosto per "pestare", o meglio testare, te stesso. La forma mentis che ti dà è molto molto di più del pensare che potresti spezzare le ossa a qualcuno. É una trasformazione del pensiero, delle tue capacità valutative. Sviluppato bene, secondo me è l'arte di evitare certe situazioni, di intuire che possono essere pericolose, di capire com'è la persona che hai davanti, quando è il momento di agire e quando è decisamente meglio quello che i giapponesi chiamano wu-wei, il non agire.

Noi occidentali siamo da sempre portati a credere che chi non agisce è un vigliacco.
Quando ci fermiamo, o perlomeno rallentiamo un po', ci rendiamo conto di quello che ci circonda, vediamo la faccia di chi ci viene incontro, possiamo persino stare attenti ai dettagli, e quindi essere più preparati di fronte ad un pericolo. Questo secondo me è basilare, ancora di più quando si tratta di noi donne. È ormai appurato che la maggior parte delle violenze sulle donne vengono perpetuate da persone vicine alle vittime stesse. Ogni volta noi ci poniamo sempre la stessa domanda: "possibile che non se ne sia accorto nessuno?". Possibile. Perchè talvolta non si può, talvolta non si vuole, vedere, ma attenzione che sono due lati di una stessa medaglia. Che la cecità sia psichica o fisica a questo punto non fa differenza, il sunto è che non si vede. Non si vede perchè si ha fretta, non si vede perchè non si è attenti o perchè si è attenti ad altro.

Nel nostro dojo il maestro è attento, i praticanti sono attenti. Nel nostro dojo ci sono molte donne. Che praticano e che insegnano. Nel nostro dojo le donne sono considerate quanto gli uomini, e non perchè qualcuno ci racconta che "nell'aikido non ci sono distinzioni di sesso, che tu sia maschio o femmina è uguale".

Le distinzioni esistono.

Non siamo tutti uguali, pertanto sarebbe illogico pensare che quello che va bene per uno vada bene per tutti. Ci sono differenze fisiche, caratteriali, cognitive. Quello che ci unisce tutti è il rispetto reciproco, la consapevolezza che le nostre differenze non costituiscono un impaccio alla nostra crescita, anzi. Quanto più ci troviamo costretti a combattere contro i nostri demoni (il pregiudizio, la presunzione, la superbia, l'arroganza, l'egocentrismo e i loro mille fratelli), tanto più miglioriamo noi stessi e il nostro aikido. Tanto più acquistiamo fiducia nelle nostre capacità, tanto più ci sentiamo sicuri nel lavoro, in famiglia, per la strada. Si dice che Ueshiba potesse risolvere le sue situazioni conflittuali solo con uno sguardo. È una cosa che almeno in parte abbiamo
sperimentato tutti: quando noi per primi siamo convinti di qualcosa, gli altri hanno più difficoltà a contestarla. Se tentenniamo saremo facile preda degli arroganti.

Lo so, se fossi nata una ventina d'anni prima sarei andata a bruciare reggiseni nelle piazze, ora per fortuna questo non serve più, e anche se talvolta le donne hanno dovuto arrivare all'eccesso, penso che allora fosse l'unico metodo possibile. Ora però non ne abbiamo più bisogno. Ora possiamo fare qualunque cosa, e fra le tante possiamo calcare un tatami con uomini che indossano... la gonna!... cosa si può chiedere di più?

Calchiamolo allora, questo suolo in cui ogni caduta, ogni
kiai, ogni proiezione, ogni kata è una conquista, un mattoncino in più sulla via della propria forza, della propria consapevolezza, dell'amore per se stessi e per gli altri.

Maura