19 dicembre 2009

Aiki-storie











Nasciamo e siamo rose già recise.
Pagine bianche di un libro ignoto. "Guerra e Pace"? "Novecento"? "Achille Piéveloce"?
Nessuno può dirlo.
Alcune pagine le scriviamo noi, altre c'erano già, scritte da altre mani. Le incrociamo nella nostra storia, a volte sul più bello o invece quando la forza non bastava più per sollevar la penna.

Le persone presenti sul tatami ieri con lo spirito o il corpo, hanno delle pagine in comune.
Hanno titoli buffi come avventure di supereroi, questi capitoli di vite scelte insieme: aiki-cene, aiki-camping... un po' come la bat-mobile, la bat-caverna, è forse perchè è un po' così che ci sentiamo, persone che cercano un po' di rituale, di eccezione, in un mondo di regole, illuministiche e spesso ciniche. Un po' di etica del passato da vivere nel presente.

L'aikicena è un momento informale, ma che mantiene comunque le sue tradizioni. Tutti contribuiscono portando qualcosa da mangiare, o da bere, che viene offerto alla comunità che partecipa, ma quest'anno si è arricchita di qualcosa di più profondo, di corale: la solidarietà.
Non serve aggiungere o spiegare, ci impoverirebbe invece di arricchire. Tanto anche questo era già scritto tra le righe di quelle pagine in comune.

Ancora una volta il tatami diventa un luogo di apprendimento che trascende la pratica marziale. Ancora una volta le mani tese si stringono e diventano sorelle e scrivono insieme delle storie.

L'augurio per il prossimo anno è che sempre di più siano le mani disposte a chiudersi intorno ai polsi in ikkyo, nikyo e sankyo perchè questo è il loro destino nella tecnica, e altrettante siano disponibili ad accarezzare, abbracciare, porgere perchè è ciò che è richiesto a coloro che perseguono un Do.

9 novembre 2009

Ricordare...



















Nell'aria, tinta d'arancio, tanti praticanti, tutti in in fila.
Come i tasti di un pianoforte, allineati e in ordine, con i volti incerti, tra il riso e l'amaro.
Tutti accomunati però da una sola ed unica motivazione: donare.
Donare qualcosa di tangibile: la propria pratica e un piccolo piccolo supporto economico... e qualcosa di etereo: la propria compassione, ovvero la condivisione di una parte di quello struggimento che per molto tempo accompagnerà chi resta qui, e il tentativo portare sulle proprie spalle un po' di tutto quel peso.

Oltre cento aikidoka si sono dati appuntamento per stringersi intorno al cuore dei cari di Maurizio, per danzare ancora con lui e per lui sul tatami, per far comprendere che l'aikido è davvero famiglia, comunità, affetti. Che niente inizia e finisce sulla materassina. Che tutto inizia e non finisce, nello spirito. Che ogni gesto può significare qualcosa di importante.

Ci sono stati sorrisi, in questa giornata spesa a soffermarsi e a ricordare.
Ci sono state lacrime, date in dono, insieme agli Onori.
Ci sono stati abbracci, e sguardi.
Ci sono stati incontri, di mani, di braccia, di occhi.

Alcuni sono venuti da lontano.
Altri, tanti, erano già qui, in questi mesi non si sono spostati, fedeli ai loro spazi, ai loro tatami.
Altri ancora si sono mossi con lo spirirto e con le intenzioni, non potendo presenziare fisicamente, e dimostrando che si può, quando si vuole.

Un caloroso ringraziamento a tutti coloro che hanno partecipato con la mente, l'animo e la volontà. E un augurio e un invito, a tutti, di seminare bene, in questa vita che è un passaggio in autostop, per meritare tanto affetto quanto il nostro compagno e amico è riuscito a fare in così breve tempo.

10 ottobre 2009

Il Sesso e la Città... della Mole!

Eh sì, io non sono Carrie Bradshaw, e d'altronde noi non siamo a Manhattan, eppure di sesso se ne parla un po' dappertutto, perlomeno nei paesi in cui si può, e a ben pensarci mi viene da chiedermi in quanti posti ciò sia ancora impensabile, una di quelle eventualità in cui è più "difficile a dirsi che a farsi".
E così un gruppo di amici si ritrova spesso a parlare di argomenti che sembravano tabù fino a non molto tempo fa. E tra una sfogliata al catalogo dell'ikea, una forchettata, o meglio "bacchettata" di spaghetti di riso, e mezzo pisolino sul divano, ci si trova ad affrontare temi curiosi come la libertà sessuale, ciò che è "normale" e ciò che non lo è, cosa "sta bene" e cosa no. Naturalmente ciascuno ha le sue domande, e le sue risposte, e davvero poche combaciano, ma è piacevole l'effetto corale. Nessuno tenta di convincere l'altro, ci si ascolta, ci si confronta e ci si scherza anche un po' su, che in fondo il soggetto della conversazione davvero si presta bene!
Nella mia mente però ogni concetto si fonde con l'altro e finisco come sempre per cadere nel gioco del "tutto e del nulla", ovvero: se vado in una direzione per così dire unicista, già penso che sia davvero difficile categorizzare le emozione umane tanto sono complesse e articolate.
Dall'altra parte, camminando nella direzione "del nulla" se andiamo a sondare nel dettaglio della sessualità di ogni singolo individuo, davvero non ce n'è una uguale all'altra, allora che senso ha categorizzare?

Un uomo mi confessò una volta di innamorarsi di una donna guardandole le mani, un altro di quel "milionesimo particolare" che le differenziava una dall'altra.
Un'amica, orgogliosissima, si avvicinò per mostrarmi la foto del suo nuovo fidanzato... che lo ritraeva completamente nudo nella vasca da bagno!

C'è chi ama quelli del proprio sesso, chi quelli dell'altro, chi solo se stesso.
C'è chi si si veste, chi si sveste e chi si traveste.
C'è chi ci pensa, chi ne parla, chi lo fa.
Chi con amore, chi per rabbia, chi per liberarsi.

C'è chi sostiene che "in amore e in guerra tutto è lecito", ed è forse l'unica opinione che mi sento di contraddire. L'amore e la guerra per me non hanno proprio nulla in comune. E soprattutto in amore non è per nulla tutto lecito, senza regole. Le regole ci sono eccome, solo che non appartengono alla comunità come in una sorta di "prontuario" o regolamento. Non sono comuni, uguali per tutti, valgono all'interno della coppia, e solo per loro.

Tutte le regole, tranne una: il rispetto per l'altro.

5 ottobre 2009

Memorial

Così come una improvvisa separazione ci ha uniti nel dolore, nella compassione, nella consolazione per la perdita di un amico, allo stesso modo ora il suo ricordo ci terrà vicini e compatti, fermi e sorridenti al pensiero di trascorrere una giornata in suo onore.
Sabato 7 novembre tutti, ma proprio tutti, siamo invitati a passare una giornata insieme, a praticare sul tatami, ad ascoltare le parole a volte commosse, a volte divertenti, che saranno dette parlando di Maurizio Mirimin.
Sono invitati gli amici, che pur non essendo mai saliti sul tatami con lui, potranno percepire la sua stessa energia, quella che ci metteva sempre.
E' invitata la famiglia, a condividere questo onore dovuto.
Sono invitati i Maestri, che sapranno come farci sentire protetti, nella nostra natura di esseri umani prima che di aikidoka.
Sono invitati gli alti in grado, perchè con lui hanno condiviso chissà quanti irimi e quanti tenkan, che la vita ha offerto loro.
Ma soprattutto sono invitati i kyu, i giovani, i principianti, quelli che hanno mosso i loro primi passi ieri, perchè abbiano la possibilità di intravvedere qual'è il cammino dell'aikido, di ciò che davvero è impregnato, perchè si sentano parte di questa famiglia che forse hanno deciso di scegliere. Che non pensino che il loro contributo non sia importante, perchè in alcuni momenti un solo sorriso può bastare a fare la differenza. E nessuno di noi sa a chi potrà appartenere quel sorriso.
L'unica cosa che sappiamo è che, come tutto il resto nell'Universo d'altronde, l'aikido presenta oltre al piacere, anche il dovere.
Questo Memoriale non nasce con l'intenzione di imparare, mostrare, stupire, vuole solo essere la celebrazione di un'amicizia, di una lealtà, che supera la barriera che divide questo mondo da un altro. Per compiere il proprio dovere non servirà essere bravi, ma semplicemente... esserci.

3 ottobre 2009

Biker's Life/1

La strada per andare al lavoro mi sembra il prolungamento del letto, al mattino.
Abbraccio il mio compagno e poggio il mento sulla sua spalla, fiduciosa. Mi stringo a lui e nel giubbotto, per cercare di trattenere ancora quel calore che avevo sotto le coperte. Ad occhi aperti sogno ancora un po'.
Il percorso è breve, ma mi aiuta ad apprezzare la giornata, a sorseggiarla a piccoli tratti, con le dita di Morfeo ancora tra i capelli.
Via Cibrario scorre lenta e sonnacchiosa anche lei, ci sono poche auto dopo le nove. Tutti i mattinieri sono già in ufficio/scuola/università.
Piazza Statuto invece è come lo sbarco in Normandia, ogni giorno, a tutte le ore. Gente che strombazza incazzata, altra che taglia la strada incurante. Una guerra civile perimetrale. D'altronde anche la strada mostra evidenti tracce di bombardamenti, dato il suo stato.
La stazione di Porta Susa mi fa pensare sempre ad un cartonato, dietro la facciata potrebbe non esserci nulla. Immagino le centinaia di ignari passeggeri che ne varcano fiduciosi la soglia per poi ricomparire al di là di un binario scarno e triste che non porta più da nessuna parte. La guardo scorrere mentre imbocchiamo l'ennesima inutile rotonda che termina con un... semaforo!
In via Cernaia invece scavano trincee, da una vita. Sono vive e si spostano, qualche volta a trenta metri da Porta Susa, poi a trecento, poi di nuovo a trenta, così riescono sempre a cogliere di sorpresa le impreparate truppe nemiche di automobilisti. Con gli occhi socchiusi sbirci la gente che cammina veloce sotto i portici. Mi riprometto di andare prima o poi a prendere il caffè in quel baruccio, risfogliare le stampe giapponesi in quella libreria, tornare da quel fotografo a farmi stampare le foto in bianco e nero che sogno di appendere in soggiorno. Tutto questo ogni giorno, come in quella puntata di Star Treck, in cui tutto si ripete identico e se ne accorge solo il Capitano Kirk.
Quando finalmente arriviamo in Via Barbaroux tutto suona familiare. All'angolo con Via dei Mercanti, il barista ci accoglie con un cenno della mano al nostro passaggio, e si prepara ad aspettarci con un caffè caldo. Con lui c'è l'erborista, che si fa sempre una sigaretta in compagnia, al mattino. Le donne di via Barbaroux sollevano lentamente le serrande su vetrine meravigliose che parlano di mondi lontani e di giardini nascosti, di poltrone a forma di scarpa con il tacco, Buddha in preghiera, e rose rampicanti.
Parcheggiamo. Scendo dalla moto, mi sfilo il casco e mi stropiccio gli occhi... e dico "Buongiorno!"
La giornata inizia adesso.

21 settembre 2009

Piccoli Kyu crescono

Nella "scala dell'Aikido" ogni passaggio di cintura segna un gradino in più conquistato, ma verso quale obiettivo? Il praticante di Aikido sa che l'obiettivo è semplicemente il gradino successivo, e sa anche che non c'è un traguardo ultimo, finale, dopo il quale la sua ricerca sarà conclusa. Se la pratica lo accompagnerà per tutta la vita, ad un certo punto probabilmente i gradini non esisteranno nemmeno più, la ricerca diventerà introspettiva, come una spirale che si arrotola infinite volte su se stessa, smetterà di essere quantificabile, giudicabile da un esaminatore, il solo esaminatore possibile sarà l'esaminato stesso che dovrà confrontarsi con il suo diretto operato.

Ma non divaghiamo, questo succede solo dopo molti molti anni, e per i "piccoli kyu" questa è una meta che si riesce ad immaginare solo osservando l'esempio degli insegnanti. Ciononostante questa distesa di tempo e di esperienza che divide i principianti dal Maestro non crea frustrazione, ansia, come spesso accade con i propri superiori o con gli insegnanti a scuola, perché l'attività del maestro non è mai finalizzata ad umiliare o sminuire chi muove ancora i suoi primi passi sul tatami con incertezze e imbarazzo.

In una buona scuola il Maestro è un riferimento soprattutto morale, etico, un esempio di fermezza, correttezza una persona sulla quale si è certi di poter riporre la propria fiducia, poiché gli si affida in un certo senso la propria incolumità (non dimentichiamoci che una pratica scorretta o inconsapevole può provocare dei danni fisici anche gravi).

Nel suo
Tao per un anno Deng Ming-Dao scrive: "Senza un maestro non possiamo cominciare, ma se non vediamo al di là della sua persona non possiamo aspirare all'interezza. Un buon maestro ci conduce verso il nostro maestro interiore."
Ed è così che, passo dopo passo, il buon maestro conduce l'allievo nel
Tao dell'Aikido, ed è ancora così che, esame dopo esame, i piccoli kyu crescono, e crescono nella pratica, ma soprattutto crescono nella vita di tutti i giorni, e sentono temprarsi il corpo ma anche lo spirito. Sentono che è più facile far valere i propri diritti, ma anche adempiere ai propri doveri.

Questo spiega anche perché qualche volta abbandonano.

Non è sempre facile assumersi le proprie responsabilità, talvolta tendiamo a rimandare o a demandare agli altri, se è possibile. Sul tatami questo non si può fare, e durante un esame meno che mai. Ciascuno di noi sulla materassina è solo con le proprie paure, le ansie e le aspirazioni, ognuno fa Aikido solo per se stesso, per soddisfare la propria sete. Talvolta è un bisogno di mostrarsi, di emergere, talvolta è un desiderio di sopraffare, altre volte è solo la necessità di migliorarsi. Credo che solo questa ultima esigenza permetta una crescita aikidoistica, poiché si tratta di un processo molto lungo.
Il confronto con chi pratica da molti anni è stimolante, ma qualche volta, se si è un po' stanchi, può apparire frustrante. Se si cercano altri risultati, più esterni, spesso si tende ad abbandonare la via, a cercarne una più semplice che apporti dei risultati con meno impiego di tempo e di energie.

Essere kyu è un po' come essere bambini: per poter camminare è necessario prima imparare a gattonare, poi ci vuole la forza di volontà per alzarsi e soprattutto il coraggio di cadere (e questa volta non solo in senso metaforico!). Così come non possiamo pensare di nascere già adulti, allo stesso modo dobbiamo apprezzare i passi mossi come principianti, perché sono le basi per quelli futuri.

Un giorno un noto pediatra, ad una madre eccessivamente ansiosa perché il proprio figlio non aveva intenzione di alzarsi in piedi, rispose: "
Signora, lei ha mai visto per strada un adulto gattonare?" Questa è la stessa risposta che dobbiamo dare a noi stessi quando ci lasciamo prendere dalla fretta, che è figlia di una filosofia tutta occidentale che ha contaminato molte arti marziali ma non l'Aikido.

Se saremo costanti anche il primo Dan arriverà... ma anche dan... non vuol dire "grado"... "scalino"...?

Do






Ogni passo una via che si apre e milioni di altre che ci sfuggono, forse per sempre. Quante vite ho mancato per poterne scegliere una sola? E' un vero rischio o semplice inconsapevolezza?
Gli indiani d'America hanno ragione, il futuro è alle spalle, altrimenti potremmo vederlo, riconoscerlo, e magari fotterlo, ogni tanto, scegliendo una via non troppo irta di difficoltà.
Ma sebbene assalita da mille dubbi, per il lavoro che non ho mai avuto, l'amore perso per strada, la città mai visitata, non smetto di ringraziare, ogni mattina, per l'Amore che ho accanto, il lavoro che ho scelto, la città che mi stupisce quando credo di odiarla, con i suoi toni di "grigio su grigio", quella di chi ha "occhi e cuore" per guardarla, come mi suggerì qualcuno.
Proprio quando avevo pensato di non avere più nulla da perdere... ecco che mi scopro ad avere tutto da trovare.

Il mio sorriso del mattino è dedicato a tutte le persone che ho incrociato, a quelle che per volere del destino mi sono sfuggite e a tutti quelli che incontrerò, perchè il migliore dei mari....

17 settembre 2009

Rosso Malpelo














"Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo."

C'entra senz'altro il gatto dei miei vicini. Pelirojo e con lo sguardo vitreo, assente, infilato in chissà quale mondo che non è il mio.
Se ne sta lì, appoggiato alla balaustra del quinto piano, sporto come se si affacciasse da dieci centimetri, e non venti metri.
Mi fa paura vederlo così, assente nella mente e del tutto presente con il corpo benchè affacciato su una possibile morte. E non me la bevo, quella delle sette vite, mi dispiace.
Comunque, com'è come non è, da quando l'eclettico micio è entrato nella mia vita, succedono di nuovo strane cose. Da quattro giorni penso a qualcuno che non vedo da mesi, anni, e inspiegabilmente questo mi si presenta davanti il giorno appresso. Ora, io ho questa meravigliosa teoria secondo la quale credo che tutto sia POSSIBILE fino a quando non mi si dimostra il contrario, quindi il fenomeno non lo trovo poi così stupefacente, quello che mi fa sorridere è che, come molti, moltissimi anni fa, questo avvenimento è legato ad un gatto.
Anche allora un grosso e foltissimo gatto rosso mi aspettava ogni giorno, al mattino mentre uscivo per andare a scuola, e accompagnava i miei passi per qualche metro, quanto bastava per farmi pensare a qualcuno che immancabilmente mi sarebbe apparso nel giro di pochi minuti (ero più giovane, e quindi anche più reattiva!). Questo, insieme alla capacità di conoscere il sesso dei nascituri, mi aveva dato un certa nomea, per qualche tempo, ma si sa, nei piccoli paesi di qualcosa si deve pur parlare. Poi un giorno, così com'era comparso, il felino scomparve, e con lui la mia ben poco utile "preveggenza".
Povera piccola e abbandonata Cassandra rimasta senza famiglio! Forse aveva esaurito la sua settima vita.
Oggi il mio compagno di balcone che i vicini hanno molto originalmente battezzato "Gatto" (probabilmente per un improvviso crack lessicale) mi ha fatto rivivere quelle buffe sensazioni da "Bia, la Strega della Magia", quel delirio di onnipotenza che ci pervade solo in alcuni momenti della vita, di solito nell'infanzia.
Ma si sa, per crescere c'è sempre tempo...


23 luglio 2009

Chiacchiere da chicchere



Tutte impilate, strette, vicine. Sbatacchiano un po' nell'acqua, cozzano contro i cucchiaini, agitate, commentano la gornata. C'è chi si vanta di essere stata accarezzata e sfiorata lungamente, prima di essere adagiata sul piattino. Chi si lamenta di una sorsata frettolosa e di un abbandono subitaneo. Due sogghignano, ma in realtà sono come la vecchina di Bocca di Rosa, hanno tenuto in sè a malapena un caffè ristretto, assaggiato e poi abbandonato a fare il fondo con lo zucchero, quello che poi per farlo venir via bisogna grattare con la spugnetta.
Sanno tutto di noi, delle nostre manie, delle paure, delle nostre ansie raccontate davanti ad un caffè macchiato caldo, freddo, d'orzo in tazza grande con latte a parte, lungo senza zucchero, corto con acqua calda, americano, decaffeinato o comediavoloriusciamoadinventarlo ma mai: "un caffè!" Anche quando vogliamo il "modello base", dobbiamo specificarlo, altrimenti il barista non ci crede, e quindi chiediamo "un caffè normale", vantandoci con lui di non volerne uno... anormale!
La mia tazza si guarda intorno e se la tira un po'. E' più grande. Occupa il suo spazio sul tavolo lei, accompagnata dalla teiera. Dentro si adagia una tisana alla frutta. Non teme nulla. Sa che potrà riposare, che sarà sollevata e posata più volte, con gesti calmi, misurati, goduti. Sa che quando andrà nella lavastoviglie con le altre, avrà un sacco di cose da raccontare. Dirà di progetti futuri, sogni e qualche illusione. Celerà per se qualche segreto. Condividerà un racconto di viaggio. Si lascerà andare con serenità ai getti d'acqua, in attesa della prossima pausa.

16 luglio 2009

Incroci

Capita. Un attimo. Occhi che si incontrano. La voglia di sorridere, alla vita, al mondo. Capita con gli estranei, capita soprattutto con altre donne. Forse mi sbaglio, ma mi sembra che le donne ci credano un po' di più, ad una vita migliore, ad un mondo che si può cambiare, alla voglia di essere felici. Mi viene da canticchiare "le donne lo sanno...", hanno voglia di tenere gli occhi aperti, di guardare, e anche di farsi guardare, talvolta. Escono come fiori a primavera, sbocciano con i colori dell'arcobaleno, e profumano di thè e cedro.
Le incontri così, a piedi, in bicicletta, vestite di rosa acceso, le zeppe con il fiocchetto, oppure con i pantaloni larghi un po' sformati che ne hanno viste tante, o la gonna al ginocchio, le scarpe a punta e la ventiquattrore. Tutto le divide, le rende diverse, tranne quell'incrocio di sguardi quella luce, quella complicità. Forse è questa la nostra riscossa, ci manca il cameratismo, ma nasciamo con la dote della complicità.

11 luglio 2009

Foglie - parole per un addio

Quando un uomo cambia casa, lavoro, città, lascia liberi degli spazi, che potranno essere occupati da altri e fa suoi quelli che un altro, spostandosi, ha lasciato dietro di sé.
Quando un uomo muore, invece, lascia dei vuoti che paiono infiniti ed incolmabili, poichè sono senza accesso, refrattari, impermeabili a qualunque penetrazione.
Quando un uomo muore prematuramente, intorno ai suoi cari si crea una bolla di incredulità così densa da non far passare nemmeno i suoni, le voci.
Un uomo che lascia questa terra prima del tempo ma che ha avuto la fortuna di poter generare un figlio prima del nuovo viaggio, però rimane tra i suoi cari non solo con lo spirito, ma anche nella sua forma terrena. Egli è riuscito a mantenere almeno in parte l'antico adagio giapponese e ha fatto in modo che la sua anima si diffondesse in un nuovo corpo, conquistando così un pezzo di immortalità.
In ogni gesto, espressione del viso, atteggiamento del figlio, gli altri lo rincontrerranno, lo rivedranno, lo riconosceranno. E se questo oggi provoca solo dolore e rimpianto, domani sarà fonte di infinita gioia, orgoglio, tenerezza.
Quando sarà grande, un giorno, guardandosi allo specchio scoprirà di aver già visto quella faccia, e, sollevando un angolo della bocca sorriderà di sè, ritrovandosi anche in una vecchia foto...

Ieri un compagno di aikido ci ha lasciati.
Nessuno indosserà la sua hakama, nessuno stringerà il suo obi, nessuno impugnerà il suo ken.
Ma il suo spirito aleggerà tra noi che lo ricorderemo sempre e vivrà nei suoi cari.
Quella che si crea sul tatami è una famiglia scelta da adulti, voluta ogni volta che lo si calca, sono braccia che si tendono per proteggere, per accogliere, per unire.
Quelle stesse braccia si stringono oggi intorno alla famiglia del nostro compagno, e sono tese, pronte a ricevere qualunque richiesta che possa essere d'aiuto o solo di sollievo.

Domo arygatò, Maurizio, per ogni attimo, ogni tecnica, ogni sorriso, condiviso con noi.




25 maggio 2009

La cosa più bella sono i Vibram e la norvegese...



Eh no, futuri delusi amici miei, con il titolo vi ho ingannato, proprio come fanno quasi quotidianamente le grandi testate giornalistiche.
Niente storie su strani "utensili del desiderio" o disinibite signorine dei fiordi. Niente articoli da leggere lontano da sguardi indiscreti.
I Vibram e la norvegese infatti sono capi di vestiario, rispettivamente di stivali e cappello antifreddo, in dotazione degli Alpini, quelli che già si contraddistinguevano nell'immaginario collettivo per barba-piuma-tasso alcolico.

In un torrido sabato sera reso ancora più afoso da banchetti di specialità estere cotte tutte in altoforni a cielo aperto e servite da sardi-pugliesi-calabresi-siculi, due omonimi seduti sul ciglio di un miniprato sopravvissuto all'urbanizzazione, si raccontano le stesse storie, avvenute con un lasso temporale di circa quindici anni l'una dall'altra.
Stesse consuetudini, stessi equipaggiamenti, stesse tradizioni, forse anche stesso cibo, inscatolato in un altro secolo, caratterizzano il loro narrare.
I due interlocutori si affacciano sullo stesso mare, è evidente.
Uno non ha mai dimenticato, l'altro inizia ora ad avere delle memorie da accumulare.
Io provo ad immaginare, ma per quanto mi sforzi, infastidita all'idea di essere tagliata fuori, non mi riesce.
Un film in esclusiva viene proiettato per due sole paia d'occhi, io posso solo fare la spettatrice degli spettatori.
E' un mondo distante come la vita in fondo al mare per me, o su Marte.
Non lo condivido, non lo approvo, e nemmeno mi piace, questo loro mondo fatto di divise tutte uguali e di gente che impara ad usare oggetti che non costruiscono nulla, ma distruggono. Mio malgrado però, nell'eterno gioco di Pollyanna, sono costretta ad ammettere che in tutto c'è qualcosa di buono, persino là.
Penso alla parola "cameratismo". Mi affascina da sempre. Era lei che negli anni dell'adolescenza mi spingeva ad avere solo amici maschi. Quella specie di sodalizio tacito, per cui gli uomini sono capaci di frequentarsi per anni senza parlare mai di sè, senza scambiarsi mai una confidenza, ma poi possono passare una notte intera al tavolino di un bar, con la birra che si scalda nel boccale, a consolare un amico appena questi alzi la mano in richiesta d'aiuto.
Oppure si commuovono al ricordo di un paio di stivali così duri da doverli spaccare con la sedia prima di poterli indossare.

Sono fatti di sovrumani silenzi, gli uomini, e alcuni di profondissima quiete.

Sarà che nella vita di una donna è più facile che si trovi una cameretta, piuttosto che una camerata, ma a noi, questo sentimento risulta essere quasi sempre precluso.

15 maggio 2009

Pabbiru



Da bambina i fogli erano sempre bianchi. Con le righe strette e larghe in terza elementare, e larghe uguali dalla quinta in poi.
Pagine bianche da riempire di compiti, parole che non venivano mai, temi sempre uguali: "dalla mia finestra vedo", ed io che ci passavo le ore che sembravano anni, davanti a quella finestra con i doppi vetri, e ci vedevo sempre e solo la stessa via, quattro alberi sempreverdi e una dannata edicola. Pensavo di essere sfortunata perchè se avessi vissuto che so, a New York, avrei avuto un sacco di cose da descrivere, ma ero nata a Porto Torres e il mio panorama lì non cambiava mai. Tranne a giugno, quando c'era la Festha Manna. Allora montavano le giostre, e la ruota panoramica girava giorno e notte, instancabile, e proprio davanti a tutte c'era il bruco mela, e la Ballerina, la mia preferita. E poi i banchetti con i pesci rossi, il pop corn e lo zucchero filato, l'autoscontro e i calcinculo, che era una giostra che potevano nominare solo i grandi, io nel tema non avrei mai potuto metterla, ma tanto non c'era pericolo, visto che la festa era a giugno, e ormai non c'erano più compiti da fare.

28 aprile 2009

Mamma ho perso l'uke!



Aikido con un sorriso.
Citando Bill Witt, un Sensei d'oltreoceano, ad occidente questa volta, ripenso a questa disciplina che, tra tanto prendersi sul serio, non disdegna mai il piacere di concedere questo movimento muscolare che illumina il volto.
Così, dopo un week-end impregnato di internazionalità, nuovi incontri e nuovi lividi, condiviso con tanti dan e davvero intriso di sudore, lacrime e sangue, non so perchè, invece di venirmi fuori un fiume di parole elogianti l'alto livello dei praticanti, mi viene da parlare di un altro fenomeno, forse meno consono al Reishiki, all'etichetta, ovvero quello dell'uke sfuggente.
Certo a ciascuno di noi piace quella sensazione tra le dita, quando si gioca il ruolo di tori, quell'idea di potere che nasce quando si conclude la tecnica e l'uke cade a terra sopraffatto, vinto. E poco importa se in realtà è condiscendenza, e tra pochi secondi il "miglior attore protagonista" vincerà l'Oscar come "miglior attore non protagonista", soprattutto quando tori pesa 48 kg e uke magari dai 90 in su! Però questo magnifico delirio di onnipotenza si scioglie nel momento in cui, tre secondi prima che tu abbia concluso la tecnica... paf! l'uke si schianta a terra, da solo!
A me per esempio ricorda il ragno che, bluffando, si finge morto e rannicchia le zampine, sperando di fregare così il nemico.
A parte l'effetto sorpresa (và come sono in forma oggi!), e la valutazione su quanto sia davvero determinante l'intenzione (:-), quella che rimane, perlopiù, è la sensazione dell'incompiuta, come quando ti sei tenuto l'ultimo pezzo di torta, quello con la fragola perfetta al centro e qualcuno te la ruba dal piatto. Inoltre c'è da tenere conto di quanto possa essere pericolosa, per l'uke stesso, la suddetta manovra. Di solito infatti è causata da una prematura ritirata per la paura di ricevere la tecnica, la caduta quindi, oltre a risultare innaturale, è pericolosa perchè scoordinata e magari destinata a spegnersi sul proprio tori o su se stessi.
Risolvere l'annoso problema non è facile. Da un lato il naturale timore dell'uke, dall'altro talvolta un eccesso di zelo di tori.
Affidarsi ad un'altra persona e lasciare che questa esegua su di noi una tecnica che inevitabilmente ci lascerà sconfitti, scomodi e talvolta un po' doloranti, richiede una fiducia incondizionata nel proprio compagno.
Questo sentimento bisogna un po' guadagnarselo e un po' concederlo.
Ancora una volta l'awase, l'unione armonica, è il naturale complemento per far sì che una caduta sia la volontaria e liberatoria conclusione della tecnica e non un accasciarsi molle e senza vitalità.
Altrimenti quando un uke arriva a terra in quel modo, capita di scorgere il suo compagno in piedi, che si guarda intorno quasi a voler avvistare quelli di CSI pronti a disegnare, attorno al corpo inerme, un bel tracciato bianco!

14 aprile 2009

Black In

Niente da fare. Inutile prendersela, certe volte va così.
Ti giri e rigiri nel letto, ma il sonno non viene.
Morfeo fa l'amore con altre, stanotte.

Persino il kata dei 31 non mi aiuta. Lo faccio mentalmente, beninteso. Il mio compagno deve convivere già con una discreta dose di stranezze senza che mi trovi anche a fendere l'aria con il mio bokken alle tre del mattino, magari con lo scolapasta in testa, povero Don Quixìote del Sol Levante... mai che mi riesca di sentirmi Dulcinea piuttosto!

Sprazzi di memorie, passate e future, si inseguono, si incasellano in un collage di immagini, tant'è che non so più quali sono ricordi e quali deliri onirici.
E' difficile spezzare la catena dell'insonnia quando si è avvolta per bene a spirale su di te.
Mentre maledico Morfeo che copula con altre, lasciandomi in preda della mia instancabile mente, sento le forze affievolirsi nel mio ben più stancabile corpo.
Devo fargli credere che non ho bisogno di lui.
La riprova sono le parole, che leggo, che scrivo, ogni notte in cui decide di tradirmi.
Niente più sospiri tra le lenzuola stanche, ma nuove vite, fatte di altre divinità, altre muse.

E mentre sono qui a vorticare tra pensieri e letture, tra le mie righe e quelle di Gogol, mio amante per questa notte, eccolo arrivare, il seduttore geloso, il protagonista sostituito dalla comparsa, banale e prevedibile, come in quella vecchia canzone d'amore che dice che chi meno ama è più forte si sa".
Ed eccomi, altrettanto prevedibile e sciocca, sciogliermi nel suo abbraccio, conscia del mio bluff, consapevole che senza di lui non potrei vivere, lui con i suoi meravigliosi doni della materia dei sogni.
E' solo con lui che posso incontrare chi ho amato, senza confini di spazio, tempo, luogo, e di quella quarta inesplorabile dimensione.

Grazie, instancabile compagno di viaggi notturni. Perdonami se sono stata gelosa, ma una notte senza viaggi è una notte sprecata.

E mentre il sole sorge in questo quadratino di cielo tra i palazzi, le mie palpebre, finalmente, tramontano.

(Buio)

12 aprile 2009

Mistral



Per la mia gente il Maestrale è un vento di cambiamento.

Si sa che durerà un numero di giorni dispari, ma non quanti saranno questi giorni. Potrebbero essere tre o quindici, o mille e uno, nessuno può dirlo.

Quel che è certo è che quando si placa niente è più uguale a prima.

Alle volte la variazione è lieve, quasi impercettibile. Può essere l'erba che inizia ad ingiallire prima dell'estate, o il rinfrescarsi della sera quando, molto prima che gli uomini ne abbiano percezione, gli animali iniziano a prepararsi per l'inverno. Altre volte a cambiare è la nostra piccola sfera umana, qualche abitudine, qualche affetto, che per noi piccoli e giganteschi esseri sulla Terra, sembra enorme, totale, assoluto. Tutto questo, di norma, nella più totale indifferenza da parte della maggioranza dei nostri simili.

Ci sono alcuni casi, rari, alchemici, in cui il cambiamento coinvolge lo spirito di una comunità, in cui sembra che un gruppo di persone possa e voglia sopportare la forza del Maestrale e le conseguenze che porta. Come in un girotondo di mani che si stringono forte, pensando che anche se una parte del paesaggio intorno a loro sarà spazzato via, al termine della bufera, quella stretta, quell'abbraccio, saranno in grado di sostituire ciò che è mutato.

I loro cuori saranno sempre le loro case, non saranno mai esuli. Potrebbero esserci dei momenti di dubbio, se il vento tira troppo forte o troppo a lungo, o se si teme che al suo passaggio il mare avrà portato via con sè tutta la spiaggia. Potresti aver paura di perdere la presa, di desiderare che il suo soffio ti prenda e ti porti via, e che poi sia il destino a fare il suo corso. Ma mentre sei lì, che tentenni, ti accorgi che la mano che ti tiene non molla, fa il suo dovere, ostinata e ferma. Allora il dubbio va via con il maestrale, e tu invece rimani al tuo posto, con gli altri.

Ci sono forze, nella natura, nel Destino, che non si possono contrastare. Si può però cercare di non lasciarsi travolgere, di restare uniti e di sfruttarle a proprio vantaggio quando il vento che soffia è un vento di cambiamento.

9 aprile 2009

Time



Lunedì 30 Marzo 2009. Ore 18:30
Oggi è cambiata l'ora legale, almeno per me. Nel senso che il fenomeno in realtà è avvenuto sabato notte, come sempre, ma io sono riuscita a non accorgermene fino ad un minuto fa, grazie ad una telefonata, e di qualcuno che, all'altro capo del telefono, incredulo mi sta ad ascoltare.

E sì che avrei dovuto accorgermene stamattina mentre mi preparavo ad andare a scuola (non come allieva, per quello l'ora è passata da un pezzo!). Il vecchio orologio da parete segnava le 6:00, tonde tonde, ma io ero certa che fossero le sette. Dubbiosa guardo il display sul cellulare: le sette. Ancora non del tutto sicura verifico sulla TV: le sette anche lì.
Guardo con compassione il claudicante segnatempo sul muro, intenerita quasi, e gentilmente faccio scorrere le lancette fino all'ora "esatta".
"Si starà scaricando la batteria" mi dico.
I nuovi elettrodomestici alle mie spalle ammiccano complici.
Fuori il cielo era più chiaro del solito. Da Piazza Bernini una luce rosea e soffusa illuminava Corso Francia, continuavo a guardarla mentre scendevo nel buco della Metro.
Così la giornata è proseguita tra una lezione e l'altra, ignaro il mondo puntuale, del mio essere fuori tempo.
Pochi minuti fa la Rivelazione!
Dall'altro capo del filo mi chiede, con la voce che sorride di me, come ho fatto a vivere le ultime 60 ore, senza accorgermene.
Ci penso su un attimo anche io.
Poi la risposta arriva, banale: le macchine hanno fatto tutto per me.
E mi sento come l'androide che sogna pecore meccaniche.
Da allora mi chiedo se tra un po' alle macchine sarà concesso di gestire anche le nostre coscienze, il nostro libero arbitrio di... arrivare in ritardo!
Forse succederà, forse è solo una questione di... tempo.

2 aprile 2009

Complici



L'ho letto.
Tra un Porta Susa e un Porta Nuova, e una volta un Porta Principe credo.
Salato come un saggio, amaro come una biografia.
Mi ha suscitato emozioni omologate a quelle di tutti, credo: indignazione, fastidio, compassione, schifo, sconforto, disgusto, pietà, per i protagonisti, e per noi.
D'altronde se non sei proprio della stessa materia di un sanpietrino di via Cernaia è normale... credo.
Poi un giorno un passeggero di fronte a me, lo legge anche lui. Doppiopetto-ventiquattrore. E il giorno dopo, eccone un'altra. Capello tinto in casa-scarpe basse-buste della spesa. E poi anche il giorno dopo. Sedicianni-futuro da inventare-pantaloni sotto il culo.
Allora ci siamo tutti mi dico.
Anche se l'ho già letto decido di riportarlo in giro, almeno una volta alla settimana, a prendere aria. E lo tiro fuori dallo zaino appena vedo qualcuno che stringe la sua copia. Quei coltelli fucsia che si riconoscono anche a centinaia di metri, che ti trafiggono anche se non vuoi sapere, se non vuoi guardare.
Alzo lo sguardo a cercare quello dell'altro lettore. Alle volte solleviamo ironici un sopracciglio. O ci si abbassano gli angoli della bocca, specie se è un giorno di pioggia, come oggi.
Sempre un cenno comunque, un "ci sono anche io", come quando solleviamo le dita a V incrociando tra motociclisti per la strada. Un riconoscersi e al contempo un prendere le distanze dal resto del mondo che non condivide.
Ci guardiamo, accomunati da questa "prosa satanica", e in due ci sentiamo un po' meglio che da soli.

29 marzo 2009

Underground

Ho accettato questo lavoro soprattutto perchè per andarci prendo la metropolitana.
Può sembrare stupida come motivazione ma, io ADORO prendere la metro, la nostra metro.
Oh niente a che vedere con gli splendori di Mosca o di San Pietroburgo, ottanta metri sottoterra e stazioni che sembrano saloni delle feste degli Zar, tanto belle da non poterle nemmeno fotografare. Ci ho provato eh! Ma un abnorme poliziotto mi si è parato davanti e ho dovuto mimare la solita italiana monoglotta per cavarmela senza la multa. Tutt'altra cosa anche il Metrò Parisien, sicuro, con le sue moltitudini umane che la invadono ogni giorno come affluenti nel fiume, e i ragazzini che invece di timbrare il biglietto saltano il tornello (si vede che a loro manca quel "p'tit brun," di cui invece noi siamo provvisti).
A Torino la metro è un mondo nuovo, quasi alieno. Una creatura dello spazio che, caduta per errore sulla città, è stata addomesticata e ora trasporta la gente in due uniche finite direzioni: Collegno - Porta Nuova.
C'è qualcosa di mistico in questo dualismo: dentro e fuori dalla città. Sali a Porta Nuova, sfuggendo al brulichio della gente, alla puzza di smog, e scendi a Fermi, in una periferia brutta ma piena di cielo.
Dal primo gradino di un ingresso qualunque la stazione ti inghiotte. Un secondo e non ricordi più chi sei e qual'è la tua meta. Ogni giorno la stessa routine, gli stessi passi, ma una musica diversa.
Mi immergo e mi chiedo se per caso prima o poi mi ritroverò per qualche misterioso fenomeno a scendere a Montmartre, a Camden Town o in un'altra galassia, chissà.
Buffo, ma tutti i "metropolitans" sembrano condividere la stessa speranza, quella di uscire fuori e trovare un mondo diverso, magari migliore.

Bonsai

In questa che è l'era del suono, e talvolta del frastuono, delle parole che non dicono, della comunicazione che poi non comunica niente, l'Aikido risponde con il silenzio.
bonsai1
...ikkyo, nikkyo, sankyo... parole che suonano incomprensibili e invece sono elementari: primo, secondo, terzo principio...
L'Aikido comunica con ciò che di più ancestrale c'è in noi: lo spirito. E lo fa con l'unico strumento che possediamo dalla nascita: il corpo.

La parola, il corpo, il contatto, hanno una valenza che non potrebbe essere concepita, accettata al di fuori del dojo. E' un luogo in cui si rispettano leggi ormai dimenticate. La fedeltà, il rispetto delle gerarchie, della forma, la totale fiducia nel proprio maestro, sono concetti ormai estranei alla nostra società, ed è forse proprio questo che spinge i praticanti a salire più volte la settimana sul tatami: il desiderio di governare la propria vita secondo le leggi della natura, che prevedono che "il giovane impari dall'anziano" (anche quando si tratta di un'anzianità di esperienza e non anagrafica), che cresca rispettando gli altri, e che migliori superando sé stesso e non "brillando di luce riflessa", perché è una cosa che solo la luna riesce a fare con grazia.

Il mondo esterno ci trasmette l'esigenza di emergere, apparire, anche a costo di soverchiare quelli che consideriamo avversari. Qualunque cosa pur di non rimanere nell'anonimato, di essere riconosciuti per strada. Forse anche questa esigenza nasce da un errore di comunicazione; spesso la gente si illude di essere meno sola, se riceve attenzione dagli altri. In realtà la solitudine è una condizione puramente spirituale e così come si può manifestare in un posto affollatissimo, quasi certamente non sfiora l'eremita, il quale anzi l'anela perché gli permette di contemplare l'universo.

Ma quanto è difficile comunicare qualcosa? Quante volte, credendo di "parlare con il cuore" a qualcuno, ci rendiamo conto di non essere affatto compresi, di sembrare addirittura ridicoli? E perché altre volte incontriamo una persona per la prima volta e dopo pochi minuti sembra di conoscerla da sempre? Viene da chiedersi se non ci sia qualche cosa che trascende la comunicazione verbale, se c'è un linguaggio che si parla ad un livello diverso, e che è compreso dall'altro solo se anch'egli lo conosce a sua volta, se può sentirlo. Per fare un paragone si potrebbe pensare agli ultrasuoni emessi da alcuni animali, che permettono loro di comunicare senza essere compresi dalle altre specie.

Suzuki sosteneva che: "La contraddizione che tanto sconcerta il modo di pensare ordinario deriva dal fatto che dobbiamo usare il linguaggio per comunicare la nostra esperienza interiore, la quale per sua stessa natura trascende il linguaggio."
... Cos'altro si potrebbe aggiungere? Avendo fede nell'assunto, niente. Perché qualunque approfondimento toccherebbe la sfera spirituale di ciascuno di noi, e a quel punto purtroppo le parole non basterebbero più. Immagino che sia per questo che l'amore vero, in tutte le sue forme, si nutra di profondi silenzi. Ad una madre che allatta il proprio figlio appena nato, che parole servono? Cosa c'è di più bello del comprendersi senza dire niente, invece di parlare per ore senza ascoltarsi mai?
Le lezioni di Aikido più belle che ricordo sono quelle fatte in assoluto silenzio... solo il frusciare delle hakame, il ritmo dei respiri, lo strofinio leggero dei piedi sul tatami. In quei momenti anche sbagliare perde significato, conta quasi di più cercare l'awase, l'armonia con il compagno che non concludere perfettamente una tecnica. E quante cose si riescono a trasmettere quando si sta zitti! Sembra un controsenso, e invece è proprio così.

Il silenzio è introspezione, è ricerca, è preghiera. Ed è forse proprio per questo che la società in cui viviamo produce tanto rumore: è un tentativo (peraltro abbastanza efficace direi!) di distoglierci da ciò che è davvero importante, di impedirci di pensare, di limitare la nostra crescita spirituale, di logorare le nostre resistenze nei confronti di un progresso che non è a misura d'uomo (è davvero difficile prendere un treno quando è in corsa, se potesse farlo ciascuno di noi credo che preferirebbe prenderlo alla stazione, magari dopo aver salutato gli amici e bevuto un caffè!). La filosofia, le religioni, sono spesso troppo silenziose per ergersi per farsi sentire, in mezzo a tanto frastuono. Uno deve proprio tendere l'orecchio per percepire qualcosa, per distinguerlo dalle milioni di voci che gridano. E se per caso decide di perseguire una strada un po' diversa deve diventare presto consapevole delle difficoltà cui andrà incontro. A dirla così sembra tutto nero, ma in verità c'è un aiuto molto importante se si vuole coglierlo, ed è la consolazione che non siamo soli a cercare di percorrere una strada diversa, e ciò che è singolare è che ci si riconosce subito, su questa strada... sono gli "ultrasuoni" che ce lo permettono!
E così, ogni volta che una comunità si forma nel tentativo di crescere e comunicarsi mutuamente qualcosa, sia che essa pratichi su un tatami, che canti in un coro e o che vada in giro per il mondo vestito di arancione, scalzo e con la testa rasata, o con un saio, un paio di sandali e un buffo taglio di capelli, la vera comunicazione è preservata.

19 marzo 2009

Donne con la gonna


Mi piace il caldo, il sole sulla pelle, anche quando brucia, mi piace il vento di maestrale che rinfresca. Ma questa sera è diverso. Esco che è buio già da un pezzo, la maggior parte delle luci delle case è già accesa, quella degli uffici è già spenta. Ci sono poche macchine in giro, vagano lente come se non sapessero bene dove portare il loro passeggero, oppure spedite e scattose, guidate da qualcuno che non vede l'ora di arrivare da qualche parte.

Io sono a piedi, e poichè ho mancato il mio appuntamento con il tatami non ho nessuna fretta di arrivare, anzi.

Dentro di me comincio a considerare l'ipotesi di andare, camminare, fino a casa. Certo, non sono esattamente due passi, ma potrei comunque immaginare che sia una forma di "allenamento mentale". Non so perchè penso queste cose, ma mentre l'altra mia vocina (che in realtà non è nemmeno mia ma appartiene a mia nonna-mamma-amica-ecc.) mi dice atterrita che "
a quest'ora di sera non è una bella cosa per una ragazza andare in giro da sola", continuo a mettere un passo dietro l'altro, e non mi assale nessun senso di angoscia, vulnerabilità, smarrimento.
Diciamoci la verità, nuda e cruda, a noi donne insegnano ad avere paura fin da quando nasciamo. Lo fanno tutti, chi a fin di bene, chi per il proprio tornaconto, ma lo fanno tutti. Tutti i personaggi che fanno paura da piccoli sono maschili: l'orco, l'uomo nero (tralasciando inoltre le questioni razziali!!), la quasi totalità dei
serial killer idem. La nostra società è ancora prettamente maschilista, vuole che la donna tema l'uomo ma al contempo vuole che ci costruisca una famiglia. C'è qualcosa di profondamente distorto in questo, secondo me.
Purtroppo è un fatto che le donne subiscono nel mondo molte più vessazioni rispetto agli uomini, ma quanta di questa violenza è generata da un'irresponsabilità vera (se mai possa considerarsi una colpa) della vittima e quanta dalla ormai millenaria convinzione che le donne debbano in qualche modo sentirsi sottomesse? Che sia comunque quello il loro ruolo?
Vogliamo ancora accettare che se un marito violenta la propria moglie "il fatto non costituisce reato"?

Il quesito successivo è chiedersi cosa può fare una donna, per non avere paura.
Non credo che siano le mie armi tenute su una spalla a farmi sentire sicura di me. Dubito che avrei la freddezza necessaria per usarle come si deve. Non nascondiamoci dietro ad un dito, l'aikido non lo pratichi per andare a pestarti per le strade, o per difenderti da un tentativo di stupro. Se cerchi quello fai altro. L'aikido ti serve piuttosto per "pestare", o meglio testare, te stesso. La forma mentis che ti dà è molto molto di più del pensare che potresti spezzare le ossa a qualcuno. É una trasformazione del pensiero, delle tue capacità valutative. Sviluppato bene, secondo me è l'arte di evitare certe situazioni, di intuire che possono essere pericolose, di capire com'è la persona che hai davanti, quando è il momento di agire e quando è decisamente meglio quello che i giapponesi chiamano wu-wei, il non agire.

Noi occidentali siamo da sempre portati a credere che chi non agisce è un vigliacco.
Quando ci fermiamo, o perlomeno rallentiamo un po', ci rendiamo conto di quello che ci circonda, vediamo la faccia di chi ci viene incontro, possiamo persino stare attenti ai dettagli, e quindi essere più preparati di fronte ad un pericolo. Questo secondo me è basilare, ancora di più quando si tratta di noi donne. È ormai appurato che la maggior parte delle violenze sulle donne vengono perpetuate da persone vicine alle vittime stesse. Ogni volta noi ci poniamo sempre la stessa domanda: "possibile che non se ne sia accorto nessuno?". Possibile. Perchè talvolta non si può, talvolta non si vuole, vedere, ma attenzione che sono due lati di una stessa medaglia. Che la cecità sia psichica o fisica a questo punto non fa differenza, il sunto è che non si vede. Non si vede perchè si ha fretta, non si vede perchè non si è attenti o perchè si è attenti ad altro.

Nel nostro dojo il maestro è attento, i praticanti sono attenti. Nel nostro dojo ci sono molte donne. Che praticano e che insegnano. Nel nostro dojo le donne sono considerate quanto gli uomini, e non perchè qualcuno ci racconta che "nell'aikido non ci sono distinzioni di sesso, che tu sia maschio o femmina è uguale".

Le distinzioni esistono.

Non siamo tutti uguali, pertanto sarebbe illogico pensare che quello che va bene per uno vada bene per tutti. Ci sono differenze fisiche, caratteriali, cognitive. Quello che ci unisce tutti è il rispetto reciproco, la consapevolezza che le nostre differenze non costituiscono un impaccio alla nostra crescita, anzi. Quanto più ci troviamo costretti a combattere contro i nostri demoni (il pregiudizio, la presunzione, la superbia, l'arroganza, l'egocentrismo e i loro mille fratelli), tanto più miglioriamo noi stessi e il nostro aikido. Tanto più acquistiamo fiducia nelle nostre capacità, tanto più ci sentiamo sicuri nel lavoro, in famiglia, per la strada. Si dice che Ueshiba potesse risolvere le sue situazioni conflittuali solo con uno sguardo. È una cosa che almeno in parte abbiamo
sperimentato tutti: quando noi per primi siamo convinti di qualcosa, gli altri hanno più difficoltà a contestarla. Se tentenniamo saremo facile preda degli arroganti.

Lo so, se fossi nata una ventina d'anni prima sarei andata a bruciare reggiseni nelle piazze, ora per fortuna questo non serve più, e anche se talvolta le donne hanno dovuto arrivare all'eccesso, penso che allora fosse l'unico metodo possibile. Ora però non ne abbiamo più bisogno. Ora possiamo fare qualunque cosa, e fra le tante possiamo calcare un tatami con uomini che indossano... la gonna!... cosa si può chiedere di più?

Calchiamolo allora, questo suolo in cui ogni caduta, ogni
kiai, ogni proiezione, ogni kata è una conquista, un mattoncino in più sulla via della propria forza, della propria consapevolezza, dell'amore per se stessi e per gli altri.

Maura